SIMBOLISMO DELL’ALVEARE E DELLE API

SIMBOLISMO DELL’ALVEARE E DELLE API

L’ape è un insetto che ha giocato un ruolo significativo nella storia e nella cultura umana. Insetto ricco di simbologia in tutte le società antiche, è stato considerato un animale nobile, impenetrabile e magico in molte religioni, dall’Oriente all’Occidente. In un’ottica meramente materialistica il simbolismo dell’ape è associato alla diligenza di questo insetto e all’organizzazione del suo alveare, rappresentando l’operosità, il rinnovo della vita e l’abbondanza. L’ape è anche stata associata alla sovranità e al senso dell’ordine in alcune casate nobiliari che la rappresentavano nella loro araldica.

In un senso più trascendente l’ape è stata associata al Sole, alla vita eterna ed al ciclo di morte e rinascita delle incarnazioni. Nelle tradizioni misteriche erano considerati animali guida nelle pratiche della Mantica. Inoltre per via di alcune caratteristiche fisiche le api erano anche considerate simbolo di purezza ed eloquenza nonché messaggere delle divinità. A causa del miele e del dardo le api erano considerate simbolo della dolcezza e della misericordia ma anche dell’esercizio della giustizia da parte della divinità.

Preistoria

Gli studi paleontologici hanno permesso di collocare nel tempo lo sviluppo degli Apoidei, solitari e sociali, attorno a 135 milioni di anni fa, quando le Angiosperme si differenziarono e divennero dominanti tra le specie botaniche presenti. Da allora api e fiori hanno percorso insieme il cammino evolutivo che ha portato allo sviluppo e al perfezionamento del loro rapporto.

L’uomo si inserisce nella storia dell’ape milioni di anni dopo. Si trattava ancora di raccoglitori e cacciatori di miele, non di apicoltori. Erano gli uomini e le donne del Mesolitico che usavano utensili come panieri e contenitori ed elaboravano tecniche come quella del fumo per facilitare la raccolta.

Nell’immagine sopra le “Cuevas de la Araña” o “Grotte dei ragni” che sono una serie di grotte nel comune di Bicorp a Valencia, in Spagna. In queste grotte si pensa sia conservata la prima rappresentazione di una scena rappresentante la raccolta del miele che risale al Neolitico, circa 8000 anni fa.

Pittura rupestre scoperta nel 1921, Cueva de la Araña.

Nel graffito presente su una parete della grotta è raffigurata una persona (forse una donna) sospesa a delle liane con una bisaccia e numerose api che le ronzano attorno mentre sta raccogliendo alcuni favi di miele da un anfratto di roccia; più in basso è rappresentata una seconda figura (probabilmente un adolescente), anch’essa dotata di un idoneo contenitore per la raccolta.

Un’altra pittura rupestre, proveniente da un riparo sotto roccia nelle Matopo Hills (Zimbabwe), presenta un particolare d’interesse, ci mostra un uomo intento ad affumicare un nido di api per poterne prelevare il miele. Probabilmente questa è la più antica rappresentazione dell’impiego del fumo in apicoltura.

Una Interessante pittura rupestre è quella ritrovata sulle Firengi Hills (India), in cui il “cacciatore” di miele procede carponi lungo un ramo di un albero che porta più nidi costruiti presumibilmente da “Apis dorsata”, specie d’api tuttora presente sulle montagne dell’India.

La pittura rupestre ritrovata a Jambudwip Sheleter (Mahadeo Hills, India centrale) rappresenta due persone intente a raccogliere miele da un nido di api, quella più in basso (una donna) sostiene un cesto nel quale viene raccolto il miele che fuoriesce dai favi del nido rotto dall’uomo mediante una lunga pertica.

Antico Egitto

Ra ha pianto di nuovo.

Le lacrime caddero a terra.

Si trasformarono in un’ape.

Una volta creata, l’ape iniziò la sua attività nei fiori di tutti gli alberi.

é così che si produce la cera, come anche il miele dalle sue lacrime.” (Papiro “Salt 825”)

Questa iscrizione proveniente da un antico papiro egiziano (Salt 825) ci racconta di come gli Egizi credevano che le lacrime generate dal pianto del dio sole Ra si trasformassero in api mentre colpivano la terra e di come il miele e la cera erano stati quindi associati alle lacrime del dio. Le api, per ciò, erano considerate sacre, un dono di Ra in persona, il quale aveva conferito loro un aspetto prezioso, non solo per come queste contribuivano con la loro produzione all’economia e al benessere della società egizia, ma anche perché erano teologicamente importanti. Proprio per questo motivo il miele era utilizzato anche nei rituali di morte, perché, oltre a conferire al defunto un incarnato dorato come d’oro era la pelle degli dei, si riteneva che fosse realmente sacro.

Secondo le credenze degli antichi Egizi il miele aveva proprietà magiche, ma anche terapeutiche, quindi era utilizzato anche nella medicina. Il papiro Ebers ed il papiro Smith, documenti di circa 3500 anni fa, descrivono alcuni preparati curativi a base di miele.

Falco in cera, modello per una fusione in metallo, collezione delle figurine, Museo del Louvre.

La cera d’api era utilizzata nei processi di fusione del metallo (Tecnica della Cera persa) ma anche nella stregoneria. Un esempio viene dal processo per la congiura contro Ramesse III, dove alcuni maghi furono accusati di aver costruito delle statue di cera per cagionare danni al faraone.

SIMBOLISMO DELL'ALVEARE E DELLE APICartigli con il nome di Ramses II preceduti dai simboli della croce ansata “Ankh”, del giunco e dell’ape; Tempio di Karnak a Luxor.

Presso questa civiltà, i Faraoni, al momento dell’avvento al trono, assumevano un nome alquanto composito e una parte di esso (il prenome) era preceduto dall’espressione “colui che appartiene al giunco e all’ape: re dell’Alto e Basso Egitto” (Gardiner, 1971; Grimal, 1998). Un bell’esempio lo si ritrova nella titolatura di Tutmosis III, faraone della XVIII dinastia che regnò dal 1457 al 1424 a.C. .

Il geroglifico del vegetale (tradotto come “giunco”) e quello dell’insetto (tradotto come “ape”) rappresentavano rispettivamente l’Alto Egitto e il Basso Egitto: associati indicavano che il Faraone regnava su entrambe le regioni (Théodoridès, 1968). Questa dicitura pur non rientrando nel segno grafico oblungo denominato “cartiglio” faceva parte integrante della titolatura reale; altri esempi si ritrovano in alcuni documenti del Museo Egizio di Torino (D’Amicone, 1982).

Per tutta la storia di questa civiltà, il Basso Egitto è stato sempre rappresentato dall’ape, come il re era sempre associato allo stesso simbolo nella sua titolatura. Lo stesso Orapollo, nei suoi scritti del V secolo d.C., scrive “quando gli egiziani vogliono rappresentare un popolo che ubbidisce al proprio re, dipingono un’ape”.

La più antica raffigurazione nota di una attività di apicoltura; dal Tempio di Shesepibre, che significa “Gioia del cuore di Ra”, fatto edificare da Nyuserre Ini nel 2500 a.C. in Egitto.

Nel bacino del Mediterraneo esistono le testimonianze più antiche dell’attività apistica, già nel 3000 a.C. in Egitto erano in uso arnie di argilla o di altro materiale. Inoltre sono da ricordare il bassorilievo del tempio di Nyuserre ad Abu Gurab (circa 2400 a.C.) e le decorazioni della tomba di Pabusa a Luxor, “Capo Sovrintendente di Nitocris Moglie di Dio” durante il regno del Faraone Psammetico I (XXVI dinastia, 660-625 a.C.), che documentano l’importanza economica dell’ape nell’antico Egitto (Leclant, 1968; Crane e Grahm, 1985; Crane, 2001).

L’immagine proveniente dalla tomba di Pabusa mostra particolari dell’attività apistica, si nota a sinistra un “apicoltore” egizio che sta prelevando favi e, a destra, un altro “apicoltore” sta depositando il miele in otri.

Come le farfalle, le api sono simboli dell’anima e della sua capacità di passare, o volare, tra i mondi nella mitologia egizia, greca e celtica. In un antico rituale egizio nel “Libro di Am-Tuat”, la voce dell’anima è paragonata al ronzio delle api e in un altro rituale, “Kher-Heb”, l’anima è definita “vagante come un’ape, sebbene tu veda tutti i movimenti“. Nella cerimonia dell’apertura della bocca (in cui l’anima veniva liberata dal corpo) c’è il verso: “Le api, dandogli protezione, lo fanno esistere“.

L’ape era venerata anche in molte altre religioni, come lo era nell’antico Egitto. L’ape è spesso una delle rappresentazioni dell’anima che ha lasciato il corpo di un uomo, ciò si ritrova in molte culture, così è per le popolazioni della Siberia e dell’Asia centrale e presso gli Indiani dell’America del Sud. Chi vede in sogno un’ape, ha dinnanzi agli occhi la sua morte imminente, lo svolazzare dell’anima che se ne va. La cultura egizia tramanda una leggenda che narra che se un’ape fosse entrata nella bocca di un defunto, egli sarebbe ritornato in vita. Un’espressione germanica per alludere allo spazio occupato dalle anime dei morti era proprio la “via delle api”.

Antico Vicino Oriente

L’antico mito ittita di Telipinu è correlato all’alternarsi ciclico delle stagioni. Tra i doveri di ogni re ittita vi era quello di celebrare ogni giorno una serie di rituali, e di pronunciare le preghiere necessarie a soddisfare gli dei, garantendo la prosperità al Paese. Alcune di queste preghiere ci sono pervenute tramite tavolette d’argilla, come ad esempio quella al dio Telipinu che recita: «Telipinu, una divinità potente e nobile sei tu. Ritorna nella casa del tempio! Qui ti supplico, con il pane e le bevande del sacrificio. Lasciami parlare a te solo, e, qualunque cosa ti dica, prestami orecchio, o dio, e ascolta. Volgiti con favore al re e alla regina, e verso i principi del Paese di Hatti. Prendi il tuo posto, Telipinu, dio potente, accanto al re, alla regina e ai principi. Fa venire la pioggia! Fa che passino venti favorevoli! Fa che tutto fiorisca e prosperi nel Paese di Hatti

La leggenda narra che Telipinu era figlio (pinu) di Teššub, il dio della tempesta e dell’antichissima dea di Hatti, il suo nome significa “figlio esaltato”.

Il mito inizia con il dio adirato per un motivo a noi ignoto (parte della tavoletta è andata distrutta). Nella sua grande collera Telipinu decise di andarsene, e nella sua furia si infilò le calzature al contrario. Allora le stagioni si destabilizzarono: la primavera e l’estate non giunsero mai, i fiumi restarono gelati, l’erba non spuntò e gli animali soffrirono la fame, cominciando a morire. Dei e uomini persero vigore, il fuoco si spense in tutte le case, gli animali trascurano i loro piccoli e né loro né gli umani si accoppiavano. Telipinu si era perso nella steppa. Anche gli dei in cielo non se la passavano bene: mangiavano senza saziarsi, e bevevano rimanendo assetati. Allora cominciarono a cercare Telipinu, mandando un’aquila dalla vista acutissima che guardasse dall’alto delle montagne, ma di Telipinu non c’era alcuna traccia. Si mosse anche il grande dio della Tempesta, padre di Telipinu, che cominciò a soffiare ovunque, tra le rocce, nelle foreste, sulle onde del mare, lungo le vie e le città dove Telipinu era solito recarsi; ma non ebbe risultati.

Allora la dea Hannahanna, madre di tutti gli dei, decise di mandare alla ricerca di Telipinu un’ape, incurante delle proteste degli altri dei, che temevano di dover ammettere la bravura di una piccola ape. Ed effettivamente l’ape riuscì a trovare il dio in uno stato di rabbia che il piccolo insetto non riesce a placare (in un’altra versione, l’ape trova il dio addormentato e lo sveglia con una puntura, facendo infuriare Telipinu e causando ancora più scompiglio e distruzione). Allora la piccola ape fuggì e tornò da Hannahannas. La dea capì che c’era da fare una sola cosa: a prendere Telipinu mandò l’aquila, insieme all’ape e alla dea Kamrušepa, una maga che iniziò a cantare dolcemente antiche formule magiche, deponendo davanti a Telipinu ogni sorta di cibo; e man mano che Telipinu mangiava, la pace scendeva nuovamente nel suo animo. Gli dei si sedettero tutti insieme a banchetto, e il mondo tornò lentamente a rifiorire. (“Hittite Myths” Hoffner Harry, Beckman Gary, 1998)

Induismo

Come un’ape raccogliendo il nettare

non nuoce né danneggia

il colore e il profumo del fiore

così il saggio si muove

nel mondo”.(Dhammapada)

Anche in India esiste un legame antico fra le sue civiltà e le api. L’Ayurveda, un sistema di medicina dall’India con testi risalenti al III o al IV secolo d.C., menziona le proprietà terapeutiche del miele, della cera d’api e del propoli.

Nella tradizione puranica, costituita da un gruppo di testi sacri hindū, l’ape indica il colore nero che è quello di Aishvarya, uno dei piedi del trono di Sadâshiva. Secondo altri testi indiani, l’ape è l’immagine dello spirito che si inebria del polline della conoscenza. In un’immagine poetica di bruciante desiderio, Kamadeva, il dio hindū dell’amore, appare con un arco la cui corda è fatta di canna da zucchero, ricoperta di api. Nell’arte indù, Vishnu viene anche ritratto come un’ape posata su un loto e Shiva come un’ape sopra un triangolo.

Bhramari Devi, la dea del nettare, prende il suo nome dal termine Hindi per “ape”. Nella mitologia indù, Bhramari fu convocata dagli dei per uccidere il demone Arunasura che aveva preso il controllo dei cieli e dei tre mondi. Per uccidere Arunasura, lo punse numerose volte con l’aiuto di innumerevoli api nere che emergevano dal suo corpo. Gli dei furono così finalmente in grado di riprendere il controllo dei cieli e dei mondi celesti.

Brahmari libera il suo esercito di api nere contro l’esercito di Aruna asura.

Bhramari (sanscrito: भ्रामरी, traslitterato: Bhrāmarī, lett. “come un’ape”) è la dea indù delle api. È un’incarnazione della dea Mahadevi nello Shaktismo. La dea è associata ad api, calabroni e vespe, che si aggrappano al suo corpo, ed è quindi tipicamente raffigurata come emanante api e calabroni dalle sue quattro mani. La dea Lakshmi dichiara di essere Bhramari nel “Lakshmi Tantra”: “Durante la sessantesima era ci sarà un demone, chiamato Aruṇa che farà molto male agli uomini e ai saggi. Poi apparirò in forma di ape incorporando innumerevoli api, e ucciderò il potente demone e salverò i tre mondi. Da allora in poi le persone mi loderanno per sempre e si rivolgeranno a me come Bhrāmarī.” (Lakshmi Tantra, 9.41-43)

Si dice che Bhramari Devi emetta il suono ronzante delle api, chiamato “Bhramaran”, lo stesso che veniva riprodotto nei canti Vedici e che rappresentava il suono essenziale dell’universo, “Anahata” (“ininterrotto, incausato”). «Colui che non conosce la sillaba imperitura del Veda, quel punto supremo presso il quale vivono tutti gli Dei, che cosa egli ha a che fare con il Veda? Solo coloro che la conoscono siedono qui pacificamente riuniti.» (“Ṛgveda I”,164,39)

Nel pranayama, il nome Bhramari è dato a un tipo di respirazione attraverso il naso, che produce un suono morbido e ronzante come il ronzio di un’ape.

Cina

In Cina l’ape ha un ruolo se non nefasto almeno associato agli aspetti terribili della guerra. Nelle fiabe cinesi le api servivano a trovare la fidanzata adatta, quindi questo insetto non era simbolo di laboriosità, rappresentava invece l’immagine del giovane innamorato che, come l’ape succhia il fiore, così trae nutrimento dall’anima dell’amata. Ci sono prove nei libri di medicina cinese che il miele e le punture d’api sono stati usati fin dall’antichità per curare varie malattie e disturbi.

Mesoamerica

Nella mitologia Maya, Ah-Muzen-Cab è una delle divinità Maya delle api e del miele. Le api utilizzate dai Maya sono le “Melipona beecheii” e “Melipona yucatanica”, varietà di ape senza pungiglione. Uno degli Eroi Gemelli Maya, Xbalanque, è anche associato alle api e all’apicoltura sotto il nome o l’aspetto di Mok Chi’. Hobnil, il Bacab che rappresenta l’Oriente, può essere associato alle api e agli alveari.

Mok Chi’, divinità protettrice degli apicoltori, su di un vaso Maya in stile “Codex”, Walters Art Museum.

Mitologia africana

Il popolo San del deserto del Kalahari racconta di un’ape che trasportò una mantide attraverso un fiume. L’ape esausta lasciò la mantide su un fiore galleggiante ma piantò un seme nel suo corpo prima di morire. Il seme crebbe fino a diventare il primo essere umano.

Il popolo Baganda dell’Uganda racconta la leggenda di Kintu, il primo uomo sulla terra. Kintu viveva da solo, a parte la sua mucca. Un giorno chiese a Ggulu, che viveva in cielo, il permesso di sposare sua figlia Nambi. Ggulu mandò a Kintu una serie di cinque prove da superare prima di accettare. Per la sua prova finale, a Kintu fu chiesto di scegliere la mucca di Ggulu da un gruppo di bovini. Nambi aiutò Kintu in questa prova finale trasformandosi in un’ape e sussurrandogli all’orecchio di scegliere quella sul cui corno sarebbe atterrata.

Celti

Presso i Celti il miele aveva un ruolo fondamentale, era utilizzato dai druidi per preparare i medicinali e l’idromele, bevanda sacra utilizzata durante molte cerimonie e i matrimoni. I celti erano soliti allevare le api in tronchi cavi o in alveari fatti di corde di canapa o paglia, al limitare delle foreste dove terminavano i campi coltivati e i pascoli.

I Celti consideravano le api messaggere degli Dei, simbolo di perfezione, saggezza e immortalità dell’anima, in quanto in possesso di una conoscenza segreta derivante direttamente dall’Altro mondo. Erano, per loro, creature associate alla conoscenza del futuro e all’ispirazione divina. Molti sono i riferimenti alle api nella mitologia e folklore celtico. Ad esempio, nella tradizione gallese troviamo un’arpa conosciuta come “Teillin”, abbreviazione o forse corruzione di “an tseillean” cioè “un’ape”. In una delle più antiche triadi bardiche gallesi, le “Trioedd Ynys Prydein”, si racconta che uno dei nomi dell’Isola di Prydein fu “Isola del Miele”, sottolineando così l’importanza di questa sostanza.

Civiltà Micenea

Frutto della civiltà minoica è il famoso Pendaglio di Mallia che risale al 1700 a.C.. Esso proviene da Malée sulla costa Nord di Creta ed è conservato presso il Museo archeologico di Heraclion a Creta.

Grecia Classica

Nella Grecia antica era diffusa l’apicoltura e l’ape era presente in diverse rappresentazioni artistiche. Tra queste molto famosa è la numismatica, gli antichi Greci, infatti, hanno prodotto le monete artisticamente più belle che siano state mai coniate. Esse riproducevano scene mitologiche, ritratti e animali (insetti inclusi: api, scarabei, farfalle, cicale, formiche, cavallette e mantidi).

Tetradracma d’Argento Efeso, Ionia, 350-340 a.C..

Gli antichi Greci decoravano le ceramiche e utilizzavano i vasi come doni che avevano un valore simbolico. Quelli denominati lekythoi erano originariamente destinati a contenere olio e profumi; in seguito vennero adibiti ad uso funerario.

L’immagine sopra riporta una lekythos di produzione attica a figure rosse, risalente al quinto secolo a.C., conservata al Museo dell’Agorà di Atene; su questo vaso è dipinto un soldato con lancia, elmo e scudo sul quale è decorato un grosso imenottero apocrito (un’ape o una vespa) (Roscalla, 1998).

Nell’antica Grecia, i soldati erano tenuti a mangiare miele come parte della loro dieta quotidiana per dare forza e coraggio, e gli atleti lo usavano allo stesso modo come un’integratore per la salute. Ippocrate, che visse tra il 463 e il 352 a.C., usava il miele per curare malattie del fegato e dello stomaco e per curare ulcere e ferite. Scrisse “Il miele sopprime la febbre, purifica e cura ferite, foruncoli e ulcere“. Anche i Greci erano noti per preparare unguenti medicinali con cera e miele e per usare entrambi in applicazioni cosmetiche, proprio come facevano gli Egizi. Esiodo scrisse in “Opere e giorni” riguardo ai buoni metodi di coltivazione e piantagione: “La quercia porta ghiande per loro in cima e api mellifere in basso“.

Aristotele, nella sua “Historia Animalium” aveva visto nel monarca delle api, che non usa il pungiglione del quale pure è provvisto, l’esempio di un autocrate saggio, che governa i suoi sudditi attraverso la clemenza e non attraverso il terrore. Un monarca, appunto, non un tiranno.

Nel “Fedone” di Platone, Socrate dichiara che le anime di chi ha praticato la virtù civile e politica, con temperanza e giustizia, ma senza filosofia, si reincarneranno in un genere di animali “πολιτικὸν καὶ ἥμερον”, ad esempio in api, vespe o formiche, e talvolta persino in uomini probi. Essi avranno la sorte più felice tra i mortali, secondi solo ai veri filosofi, che invece raggiungeranno la divinità. Porfirio, filosofo del III secolo d.C., racconta ne “L’antro delle ninfe” che gli antichi chiamavano “mélisse” le anime, ma solo quelle avviate alla rinascita e destinate a vivere con giustizia, a ritornare là da dove provengono dopo aver adempiuto il volere degli dei: “l’anima dapprima discende nel mondo sensibile, nei corpi, e dopo si pone il problema del ritorno all’origine attraverso la vita morale”. Le api, anime dei giusti, venivano contrapposte alle fastidiose mosche che si nutrono del pus degli animali e non del succo dei fiori, o al “feralis papilio”, la farfalla notturna.

Nella mitologia greca classica le api metafisicamente assumono principalmente quattro significati. Animale simbolo di Purezza, animale simbolo del collegamento del mondo dei vivi all’Aldilà e del ciclo delle rinascite, animale collegato alla pratica della divinazione, la Mantica, ed anche animale messaggero o guida inviato dalla divinità. In alcuni di questi miti si può rilevare la presenza contemporanea di tutti questi elementi, o almeno di alcuni tra loro. È inoltre rintracciabile in essi un’origine pre-ellenica legata ad antecedenti forme di religiosità sciamanica.

“Il cibo degli dèi dell’Olimpo” piatto in maiolica del 1530 attribuito a Niccolò Pellipario (detto Nicola da Urbino), Museo Boijmans Van Beuningen.

L’idea di purezza dell’ape è possibilmente legata all’osservazione umana dell’estrema pulizia all’interno del suo alveare. Infatti le api non tollerano alcuna sporcizia in esso e lo purificano costantemente con il propoli. Da qui è possibile l’associazione tra il concetto di purezza e l’ape, presente nella cultura greca. Nella mitologia greca l’ambrosia (in greco antico: ἀμβροσία?, ambrosìā) è menzionata come cibo, o talvolta bevanda, degli dèi, strettamente correlato con l’ambrosia è il “nettare”. Nei poemi omerici il nettare è solitamente la bevanda e l’ambrosia il cibo degli dèi, mentre in Alcmane nettare è il cibo, e in Saffo (frammento 45) e Anassandride ambrosia è la bevanda. Wilhelm H. Roscher pensa che sia “nettare” che “ambrosia” identificassero tipi di miele, probabilmente anche di cannabis, ed in questo caso il loro potere di conferire immortalità sarebbe da attribuire al supposto potere curativo e purificante del miele stesso, il quale è infatti asettico, ed anche perché l’idromele, miele fermentato, precedette il vino come enteogeno, ovvero sostanza psicoattiva usata in un contesto religioso-sciamanico, nel mondo dell’Egeo antico; la grande divinità venerata a Creta, su alcuni reperti, è rappresentata nella forma di un’ape.

“Giove bambino nutrito dalla capra Amaltea” Nicolas Poussin, Gemäldegalerie Berlino.

Esiste una complessa simbologia riguardante le api e il miele tra le culture mediterranee dell’età del Bronzo, l’ape era una creatura sacra, associata alla divinità. In uno dei miti più conosciuti Rhea, divinità pre-olimpica figlia di Gea ed Urano, partorì Zeus a Creta, nell’antro Ideo, al cui ingresso si innalzava un albero, una grotta sacra alle api e sede di rituali iniziatici, in cui né dio né uomo potevano entrare, e furono proprio le api sacre a nutrire il neonato col miele. Le api dell’antro cretese, nei racconti degli autori classici, divennero ninfe: una di queste, Melissa, era figlia del re Melisseus e, scrive Lattanzio, fu la prima sacerdotessa della Magna Mater; lei e le sue sorelle verranno chiamate Melissai o Meliadi.

Ninfe e api silvestri, nutrici divine, le troveremo sovrapposte in numerosi testi, entrambe associate ad habitat come i boschi, gli alberi e le grotte con acque, in quegli stessi luoghi cioè in cui le api allo stato selvatico depongono il miele e in cui sorgeranno i Ninfei (i santuari rupestri ad esse dedicati). «La divinità femminile che affida il suo piccolo neonato alle cure di ancelle divine o semi-divine perché sia da esse svezzato, appare un topos riconducibile ai culti preistorici delle grandi dee madri» (Aspesi 2011: 67). Culti evidentemente pre-ellenici, occultati dalle successive invasioni indoeuropee: se delle Ninfe nutrono Zeus neonato, è evidente che esse occupano per prime il suolo in cui egli è arrivato successivamente. Il cibo donato, il nettare o “biondo miele”, è chiamato il “dolce cibo degli dei”.

Allo stesso modo le Ninfe dell’Antro Niseo nutrirono con il miele il divino Dioniso, e Meliteo (da meli, miele), figlio di Zeus e della Ninfa Otreide, fu nutrito da uno sciame di api; o le Thriai, le Ninfe-Muse che secondo Filocoro furono nutrici di Apollo; o ancora, la dea cretese Britomartis [Che i Greci identificheranno in una Ninfa Oreade o in Artemide], il cui nome – secondo alcuni studiosi – significa proprio ape-Ninfa.

Scrive Mnasea, scoliaste d’epoca ellenistica: «Api sono coloro che consacrano la loro vita ai riti, e furono queste api-Ninfe a far desistere gli uomini da una dieta carnivora e a insegnare loro un regime vegetariano. Una di queste ninfe, Melissa, per prima scoprì dei favi, ne mangiò e mescolò miele e acqua; istruì le compagne e chiamò gli insetti melissai dal proprio nome

Melissa deriva da un vocabolo greco antico, attestato in dialetto ionico come μέλισσα (mélissa) e in dialetto attico come μέλιττα (melitta), a sua volta derivato da μέλι (méli, “miele”); il suo significato è “colei che fa il miele”, ossia “ape” (similmente al nome ebraico Debora), sebbene vada notato che il termine era usato anche per indicare le sacerdotesse pagane, in particolare quelle di Delfi. Le Ninfe-Melisse sembrano dunque semidee o sacerdotesse che impiegano e somministrano il miele – dono divino – come nutrimento sacro.

Il Miele è sostanza pura, proiezione simbolica di una illibatezza da intendere quasi in senso più etico che fisiologico – così come ‘pura’ è considerata dall’etologia antica la figura dell’ape, analogamente allo status verginale della Pizia, l’‘ape delfica’. In una commedia di Aristofane ambientata ad Atene, durante il secondo giorno delle Tesmoforie, una festa riservata alle donne e dedicata alle dee Demetra e Persefone, le donne chiamate “Melissai”, facevano astinenza sessuale per tre giorni, digiunavano e dormivano a terra su agnocasto, una pianta anafrodisiaca, per emulare la purezza e la dedizione dell’ape. Il miele si trasforma in un elemento importante in quei rituali nel corso dei quali, come ricorda Porfirio, si suole versare sulle mani dei fedeli non acqua, ma miele, poiché è «con il miele che si purifica la lingua da ogni errore».

La profezia nell’antica Grecia sembra essere stata associata alle api. Si pensava che le api di tutti i tipi avessero una conoscenza speciale e la capacità di predire o vedere il futuro. Nella letteratura greca troviamo diversi esempi di Ninfe o sacerdotesse legate all’attività profetica: Pindaro chiama la Pizia Melissa” di Delfi, là dove un tempio venne costruito dalle api, e dove la prima profetessa di Gea fu la Ninfa Dafni; nell’Inno Omerico a Hermes le tre vergini-api «insegnano, in disparte, la divinazione»; la Ninfa Erato era profetessa di Pan in Arcadia; le Thriai nutrici di Apollo sono definite da Esichio le prime profetesse, e tali sono anche le ninfe Sfragitidi presso il monte Citerone (Andò 1996: nota 117). Il miele, cibo divino caduto dal cielo (Aristotele ”Hist. Anim.” 553 b-554 a), non solo purifica ma anche rivela. È simbolo dell’illuminazione, della vera sapienza attinta nel rito iniziatico, è mezzo di comunicazione con il divino. Nella tradizione greca, fin dalle origini, il miele è associato alla dolcezza della parola poetica ed è simbolo di nutrimento spirituale e ispirazione divina, come attestano aneddoti relativi a poeti e filosofi (per esempio Omero, Saffo, Pitagora, Pindaro, Platone…), “nutriti e illuminati dal miele divino”. Esso è cibo della rinascita iniziatica: è ingrediente della sacra bevanda (ciceone) dei misteri Eleusini. Anche Omero associa il miele alla parola, lo stesso Pindaro sembra mettere in connessione méli (miele) e mélos (canto). Un’allusione indiretta alla fluidità e alla dolcezza di quel miele che simbolicamente è capace di sciogliere la lingua e rendere fluente il linguaggio, come ci ricorda il Socrate dello “Ione” platonico, quando afferma che le capacità del poetare e del vaticinare dipendono direttamente da «fonti di miele che scorrono (…) dalle valli selvose delle Muse»; quelle stesse Muse che, detto per inciso, avrebbero insegnato ad Aristeo l’arte della divinazione, secondo quanto riportato da Apollonio Rodio.

Nella mitologia greca, il dio Apollo imparò a vedere nel futuro dalle Thriae, le tre dee-api pre-elleniche, Melaina, Cleodora e Dafni (Pausania “Pausanias’s Description of Greece” Cambridge University Press, pag 239).

Raffigurazione di una dea-ape, forse una delle Trie, rinvenuta a Camiro, Rodi, datata al VII secolo a.C. (British Museum).

L’Inno a Hermes di Omero descrive tre “fanciulle delle api” con il potere della divinazione e quindi della verità, e identifica il cibo degli dei come il miele. Nel poema Apollo, dopo aver rivelato la propria volontà di trasformarsi in somma divinità oracolare, così si rivolge al figlio di Maia: «Ti dirò un’altra cosa, figlio di Zeus portatore dell’egida e della gloriosa Maia, demone veloce tra gli dei. Ci sono in verità tre sorelle per nascita, venerande di età, vergini esultanti per le ali rapide. Con la testa cosparsa di farina bianca abitano una dimora posta sotto il Parnaso, insegnano in disparte la divinazione, arte alla quale inseguendo gli armenti mi dedicavo ancora fanciullo e mio padre non se ne dava pensiero. Da là, volando ora da una parte ora dall’altra, esse si nutrono con il miele dei favi e su ogni cosa danno profezie veritiere. E quando, dopo aver mangiato il biondo miele, sono prese dall’ispirazione, benignamente consentono di rivelare la verità; ma se sono private del dolce cibo degli dei allora mentono, turbinando confusamente. D’ora innanzi ti dono queste. Tu interrogandole sinceramente rallegra il tuo animo; e se incontri un uomo mortale, spesso udirà la tua voce, qualora abbia fortuna. Tieni questo dono, figlio di Maia, e cura le vacche dalle corna ricurve che abitano nei campi, i cavalli e i muli operosi

Le fonti moderne, almeno fino agli anni 80’, associavano le “fanciulle delle api” ad Apollo e le identificavano con le Trie, ma probabilmente non correttamente. Sia le Trie che le fanciulle delle api hanno il merito di aver assistito Apollo nello sviluppo dei suoi poteri, ma la divinazione che Apollo ha appreso dalle prime è diversa da quella delle seconde. Il tipo di divinazione insegnato dalle Trie ad Apollo era infatti quello relativo al lancio delle pietre, mentre quello delle fanciulle delle api, associato anche a Ermes, era la cosiddetta cleromanzia, che faceva uso di dadi e simili.

Nel mito greco miceneo e minoico, l’ape era un emblema di Potnia, chiamata anche “Ape Madre Pura”, le sue sacerdotesse ricevevano il nome di Melissa (“ape”). Secondo il filosofo neoplatonico Porfirio, le sacerdotesse di Demetra erano anche chiamate “Melissae” e Melissa era un nome di Artemide. Nel ”Ippolito” di Euripide, l’eroe offre ad Artemide una corona di fiori che proviene da un prato incontaminato, dove il pastore non osa pascolare il suo gregge e in cui solo l’ape può accedervi, in quanto luogo di grande purezza.

Nella religiosità demetriaca alle donne era riservato l’appellativo di api (Melissae). Lo troviamo per lo più come titolo rituale delle Tesmoforianti, ad esempio in Apollodoro di Atene e in Mnasea di Patara (in Schol. Pi.Pyth. 4, 106a), ma in Porfirio (Antr. 18) μέλισσαι è attributo sia delle sacerdotesse di Demetra che delle iniziate ai Misteri Eleusini (vd. anche Esichio, che chiama le api αἱ τῆς Δήμητρος μύστιδες). Il frammento di Apollodoro proveniente da un papiro datato al 200 d.C. (Poxy XV 1802, fr. 3, col. 2, 29-35), trasmette un mito eziologico, probabilmente di ascendenza alessandrina, secondo cui Demetra aveva portato a Paro, presso la corte del re Melisso, come dono per le sue sessanta figlie, il telaio e i lavori di Persefone, e quindi aveva rivelato ad esse per prime i πάθη τε καὶ μυστήρια della figlia. Si tratta di una tradizione alternativa a quella dell’inno omerico, che vedeva Demetra rivelare i Misteri ai principi di Eleusi, Trittolemo, Diocle, Eumolpo e Celeo. Un altro mito eziologico collega Demetra (anzi il suo corrispettivo latino Cerere) all’ape. Servio (Comm. in “Verg. Aen.” 1.430) narra della morte e della metamorfosi in ape di Melissa, una vecchia corinzia iniziata ai Misteri Eleusini, uccisa da un gruppo di donne per essersi rifiutata di rivelare il segreto rituale.

Le donne che prendono parte ai riti della religione demetriaca sono donne-api, e questo, al di là della datazione delle fonti a nostra disposizione che le indicano come tali, sarà valido pure per l’età classica, considerata l’antichità di questo simbolismo. Le μέλισσαι “non sono soltanto spose caste e fedeli al proprio marito, sono anche e soprattutto madri feconde di figli legittimi” (Detienne 1975). L’ape si ricollegava, infatti, anche alla ritualità della Grande Dea, un’altra divinità della fertilità, e simboleggiava il “potere rigeneratore della divinità che governa sulla morte e può ridonare la vita” (Roscalla 1998, 20).

L’antico filosofo greco Porfirio (233-304 d.C. circa) scrisse delle sacerdotesse di Demetra, note come Melissae (“api”), che erano iniziate della dea ctonia. Dagli scritti di Porfirio, gli studiosi hanno anche appreso che Melissa era il nome della dea della luna Artemide, la dea che toglieva la sofferenza alle madri che partorivano. Le anime erano simboleggiate dalle api ed era Melissa che attirava le anime per farle nascere. Era collegata all’idea di una rigenerazione periodica.

Le api sembrano essere state il simbolo delle ninfe, da cui a volte sono chiamate Melissae, e a volte si dice che siano state trasformate in api. In che modo sono collegati api e miele alle Ninfe? Porfirio ne parla, descrivendo la grotta di Itaca di cui si racconta nell’Odissea:

«In capo al porto vi è un olivo dalle ampie foglie: vicino è un antro amabile, oscuro, sacro alle Ninfe chiamate Naiadi; in esso vi sono crateri e anfore di pietra; lì le api ripongono il miele.[…] Qui scorrono acque perenni…

Le ninfe Naiadi sono dunque le anime che discendono nella generazione. Da qui discende anche l’uso di chiamare “ninfe” le donne che si sposano, come se contraessero un vincolo al fine di generare, e di cospargerle di acque attinte da fonti o correnti o sorgenti perenni.»

L’elemento liquido rientra nel complesso insieme simbolico al cui centro stanno le grotte-ninfeo, là dove nascono le sorgenti sotterranee, l’acqua sacra alle Ninfe. L’acqua di sorgente è essenza ctonia: proviene dal ventre della Dea e i luoghi in cui essa sgorga sono luoghi di confine e insieme di collegamento tra due mondi altrimenti separati: il nostro mondo e il mondo infero. Perciò le api-Ninfe sono esseri che abitano il confine tra la vita e la morte, come ognuno di noi prima della nascita trascorre nell’acqua i nove mesi liminali della gestazione. Il legame tra Ninfe e acque sorgive chiarisce la loro relazione con la sfera del selvatico, e le sedi naturali delle api/Ninfe, le grotte da cui sgorgano acque perenni, rafforzano il simbolismo ctonio dell’insieme. È nelle grotte che ha avuto origine il culto dei morti: le grotte sono al contempo tombe dove i morti riposano e ventre gravido della Madre da cui si ri-nasce. Il miele, liquido amniotico divino usato nei riti funerari, e l’acqua sorgiva sono i mezzi per “conservare” e proteggere i morti e coloro che devono ritualmente ri-nascere.

Le Ninfe, come anime, vivono insieme alle api, entrambe potendo incarnarsi nella creatura che deve ancora nascere. Ancora: i favi sono stati usati, nel periodo arcaico, come tombe per i bambini morti prematuramente. Abbiamo dunque creature che abitano uno spazio tra la vita e la morte.

Favo utilizzato come tomba per neonati, Eritria, Grecia, periodo ellenistico.

Il miele, come le Ninfe, è un elemento ambiguo e liminare. Già dal periodo della protostoria greca questa sostanza – considerata estremamente rara e preziosa – é legata al mondo infero: veniva usato nelle libagioni durante i rituali funebri e offerto come sacrificio alle divinità ctonie. La pratica di imbalsamare i morti con il miele, grazie alle sue proprietà anaerobiche e antibatteriche, esisteva anche in Egitto e a Roma. Stazio, nelle “Silvae”, racconta che il corpo di Alessandro Magno era «perfusus Hyblaeo nectare», immerso nel miele ibleo, tanto che Augusto, tre secoli dopo, poté vederne il volto.

Il carattere ctonio del miele emerge anche nell’analisi dei rituali funerari, come documentano numerose testimonianze a riguardo, tra le quali possiamo ricordare la libagione in onore dei morti suggerita da Circe a Odisseo prima della catabasi, il miele offerto dalla protagonista ai defunti nel ”Ifigenia in Tauride”, o ancora quello stillato dalla regina Atossa in occasione dell’invocazione dell’ombra di Dario nei “Persiani” eschilei. Si ricordino anche le «due urne ricolme di miele e d’unguento colle bocche inclinate sul feretro» (μέλιτος καὶ ἀλείφατος ἀμφιφορῆας) poste ai lati del cadavere di Patroclo; così come circondato da «unguento infinito e dolce miele» arde sull’ustrino funebre il corpo senza vita di Achille, secondo quanto descritto dal phasma di Agamennone nel ventiquattresimo libro dell’Odissea. Inevitabile, in questa prospettiva, che il miele, sostanza intrinsecamente indeterminata (né liquida né solida), non possa che divenire anche un elemento attivo nelle libagioni per mezzo delle quali si suole entrare in contatto con le anime dei defunti.

Quelle stesse anime che, talvolta, possono essere chiamate melissai, le api che ronzano come uno sciame (smenos), secondo quanto riportatoci in un passo frammentario di Sofocle:

πηγαὶ δὲ καὶ νάματα οἰκεῖα ταῖς ὑδριάσι νύμφαις καὶ ἔτι γε μᾶλλον νύμφαις

ταῖς ψυχαῖς, ἃς ἰδίως μελίσσας οἱ παλαιοὶ ἐκάλουν ἡδονῆς οὔσας ἐργαστικάς

ὅθεν καὶ ὁ Σοφοκλῆς οὐκ ἀνοικείως ἐπὶ τῶν ψυχῶν ἔφη

βομβεῖ δὲ νεκρῶν σμῆνος ἔρχεταί τ’ ἄνω.’

«Ninfe nel senso di anime, cioè Melisse come dicevano gli antichi in virtù del fatto che esse erano produttrici di dolcezza. Così non sbagliava Sofocle nel dire delle anime: “lo sciame dei morti ronzando risale”

La dimensione funebre del miele trova conferma anche nel mondo romano, come documentato da una tradizione relativa alla suddivisione serviana dell’Urbs in quattro regiones, dall’offerta a base di focacce mielate sancita da Servio Tullio e dedicata ai “Lares compitales”, entità divine preposte alla protezione degli incroci rurali e urbani, luoghi di per sé relazionati al mondo ctonio come dimostra la tutela su di essi esercitata da “Ecate”, e a loro volta figli della divinità infera “Tacita Muta”. Di tipo più spiccatamente mantico è infine il rituale connesso al culto dedicato a Trofonio, visto che, secondo quanto riporta lo scolio alle “Nubi” di Aristofane, era tradizione che coloro che avessero avuto intenzione di scendere nel suo antro per richiedere un oracolo avrebbero dovuto premunirsi di focacce mielate con cui ammansire i serpenti che vi risiedevano e ottenerne così un più equo giudizio.

Nel mito di “Amore e Psiche” Psiche doveva recarsi nell’Ade a chiedere a Persefone, la regina degli Inferi, un po’ della sua bellezza da mettere in una scatola nera che le era stata consegnata da Afrodite. Psiche placò Cerbero, il cane a tre teste, con un dolce al miele e pagò a Caronte un obolo perché la portasse nell’Ade. Lungo il percorso vide delle mani che spuntavano dall’acqua. Una voce le disse di lanciare loro un dolce al miele. Una volta arrivata, Persefone le disse che sarebbe stata lieta di fare un favore ad Afrodite. Al ritorno Psiche pagò nuovamente Caronte, gettò un dolce alle mani e ne diede un altro a Cerbero.

Albrecht Dürer “Cupido il ladro di Miele” Kunsthistorisches Museum Vienna.

Infine, le api sembrano svolgere non di rado una fondamentale funzione di guida nella tradizione greca. È proprio alla luce di questo, che sembra acquisire un significato particolare un breve passo delle “Imagines” di Filostrato Maggiore in cui le Muse, segnatamente in forma di api, suggeriscono la giusta rotta agli Ateniesi, partiti alla volta della Ionia per la sua colonizzazione. Si dice anche che le ninfe sotto forma di api abbiano guidato i coloni che andarono a Efeso. Gli esempi sono molteplici. È uno sciame d’api, infatti, nella testimonianza di Pausania, ad indicare ai Beoti la tomba di Trofonio nell’aition del più importante culto mantico della regione, ovvero il manteion di Lebadea; e ancora i medesimi insetti suggeriscono a Latino il luogo dove costruire il proprio palazzo a Laurento nel corso del VII libro dell’Eneide e permettono all’indovino argivo Poliido di individuare il luogo nel quale si trova il cadavere del giovane Glauco – significativamente annegato in un pithos pieno di miele – nella versione pseudo-apollodorea del mito cretese sulla morte/resurrezione del figlio di Minosse (Apollodoro 3, 18, 6).

Magna Grecia

Due antiche monete in argento della magna Grecia (IV e III secolo a.C.) contenenti una raffigurazione di ape.

Nel 1843 ad Oliena (NU – Sardegna) fu rinvenuta una statuetta (16 cm) in bronzo raffigurante un uomo nudo con il corpo coperto di api. «La statuetta che presentiamo fu trovata nel gennajo del 1843 nel villaggio di Oliana, nel salto chiamato Dule (…) Questa statua rappresenta un uomo nudo che ha il corpo coperto di api, in bell’ordine collocate, ed in testa un diadema che sulla fronte tiene due rosoni, o mazzetti di fiori, e termina sulle spalle colle due estremità rannodate, e svolazzanti. (…) L’essersi trovata questa statuetta nella località come di sopra abbiamo detto, vieppiù ci conferma che non possa essere altro che l’immagine di Aristeo. In nessun’altra Provincia difatti si coltivano a preferenza le api che in quella, e pare che ciò sia una tradizionale memoria dell’arrivo di Aristeo.» (G. Spano, “Statua d’Aristeo in bronzo”, in “Bullettino Archeologico Sardo”, I, n. 5, maggio 1855, pp. 65)

Statua di Aristeo coperto di api, da Oliena, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Proprio la presenza delle api suggeriva a G. Spano di identificare il soggetto rappresentato nel bronzetto di Oliena con Aristeo, figura divina, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, le cui prerogative sono primariamente esercitate in ambito rurale, come confermano,tra gli altri, Apollonio Rodio, Diodoro Siculo, Virgilio, Plinio il Vecchio e Giustino che, in qualità di πρῶτος εὐρετής, gli attribuiscono in particolare l’introduzione delle tecniche della produzione casearia, dell’oleicoltura e dell’apicoltura apprese dalle Ninfe.

Sono infatti ben note le connessioni mitiche che intercorrerebbero tra la Sardegna e l’eroe, a sua volta annoverato entro quel gruppo di figure mitologiche elleniche, come Sardo, Norace, Iolao e Dedalo, espressione di quella tipica tendenza greca ad elaborare relazioni con culture allogene in funzione civilizzatrice.

Secondo le fonti, Aristeo, sconvolto dalla morte del figlio Atteone, avrebbe lasciato la Beozia, o alternativamente la Libia oppure ancora Ceo, per dirigersi, su indicazione della madre Cirene, in Sardegna che, essendo desolata e incolta, avrebbe non solo reso fertile, introducendo la frutticoltura e l’agricoltura, ma, stando alla testimonianza di Solino, una volta riunite le etnie qui precedentemente stanziatesi, ovvero i Libici e gli Iberici di Tartesso guidati rispettivamente dall’eraclide Sardo e da Norace figlio di Hermes, avrebbe fondato la prima città sarda, Caralis, l’attuale Cagliari, ubicata sulla costa meridionale dell’isola:

Nihil ergo attinet dicere (ut) Sardus Hercule, Norax Mercurio procreaticum alter a Libya, alter ab usque Tartesso Hispaniae in hosce fines permeavissent, a Sardo terrae, a Norace Norae oppido nomen datum, mox Aristaeum regnando his proximum in urbe Caralis, quam condiderat ipse coniuncto populo utriusque sanguinis, seiuges usque ad se gentes ad unum morem coniugasse, imperium ex insolentia nihil aspernatas”.

Non importa dunque raccontare come Sardo, nato da Ercole, Norace da Mercurio, l’uno dall’Africa e l’altro da Tartesso della Spagna, arrivassero sino a questi confini, e che da Sardo sia denominata questa terra, e da Norace la città di Nora, e che più tardi Aristeo, mentre governava vicino alla città di Caralis, che egli stesso aveva fondato dopo aver fuso il sangue dell’uno e dell’altro popolo, avesse unificato a sé genti separate in un unico costume che a causa della loro fierezza rifiutavano l’autorità“.

Sono dunque l’introduzione dell’uso delle tecniche rurali e la fondazione di Cagliari, con la relativa “reductio ad unum” delle variegate etnie sarde, che consentono il mutamento di status della Sardegna da una dimensione pre-agricola e pre-urbana protostorica a quella civile storica, con la conseguente contestualizzazione di Aristeo in quel quadro funzionale di eroe/daimon culturale e fondatore che costituisce la sua chiave esegetica fondamentale.

Civiltà Romana

Mellona o Mellonia era un’antica dea romana che Sant’Agostino nel “De civitate Dei “ indicava promuovere la fornitura di miele (latino mel, mellis) come Pomona faceva per le mele e Bubona per il bestiame. Arnobio la descrive come “una dea importante e potente per quanto riguarda le api, che si prende cura e protegge la dolcezza del miele“.

W.H. Roscher include Mellona tra gli “indigitamenta”, l’elenco di divinità mantenuto dai sacerdoti romani per assicurare che la divinità corretta fosse invocata nei rituali.

Illustrazione da “The Works of Virgil” tradotto da John Dryden (1709).

Nella tradizione letteraria romana vi è una continuità con quella greca riguardo ai significati simbolici dell’ape. Nelle leggende greche, ad esempio, l’ape è considerata un simbolo di purezza e fedeltà coniugale. Questo legame con la purezza è spesso sottolineato anche nella poesia greca e romana, in cui l’ape è vista come un simbolo di produttività e saggezza divina.

L’ape odia ogni forma di putrido, mai essa si poserà su un pezzo di carne, o là dove sia del sangue o del grasso. Inoltre l’ape tiene costantemente pulito l’alveare, trasportandone fuori gli escrementi, e sia Virgilio che Plinio affermano che l’apicoltore deve allontanare da esso ogni fonte di cattivi odori e costruirlo lontano da latrine, letamai e bagni e, persino nell’avvicinarsi all’alveare, deve curare di essersi astenuto da ogni cibo forte o troppo saporoso. Per questo le api erano considerate simbolo di purezza.

Con le “Georgiche“, Virgilio abbandonò la dolcezza consolatoria della natura presente nelle “Bucoliche” per trasformare la natura in cultura, grazie al lavoro dell’uomo. Il lavoro visto non più come una condanna, ma come dono divino, viene rivalutato dal punto di vista etico e culturale. Da questo punto di vista assume una particolare importanza la figura delle api nella digressione del IV libro. L’autore mostra le api riprendendo la metafora sociale di Cicerone: esse hanno un’organizzazione comunitaria, caratterizzata dalla fedeltà alla casa e alle leggi, dalla condivisione delle risorse e dalla dedizione al lavoro, in una tipica visione stoica della società. Le api, inoltre, sono disposte anche al sacrificio personale per il bene comune e mantengono l’assoluta dedizione al capo: tutti elementi del più puro idealismo augusteo.

Cristianesimo

Anche nel cristianesimo il simbolismo dell’ape fu caricato di una pluralità di significati.

Nel Cristianesimo, per la loro infaticabilità, furono considerate un modello per l’operosità della comunione cristiana. Sant’Ambrogio paragonò la Chiesa all’alveare, in cui tutti dovrebbero essere laboriosi e capaci di cogliere solo il meglio dai fiori. San Clemente d’Alessandria commentando i “Proverbi”(6; 8) soleva dire: «Va a vedere l’ape e impara com’è laboriosa» e aggiungeva «perché l’ape ronza sui fiori di tutto un prato per ricavarne un solo miele». Presso i cristiani del Medioevo le api erano molto apprezzate perché scevre di vizi. «Imitate la prudenza delle api» raccomanda Teolepto di Filadelfia citandole come esempio per la vita spirituale della comunità monastiche. L’ape compariva anche nelle miniature dei manoscritti medievali, simboleggiando la diligenza e la produttività.

Sacramentarium Gelasianum” frontespizio e incipit del manoscritto vaticano.

Il “Sacramentarium Gelasianum” è un antico libro liturgico cristiano, che contiene i testi per la celebrazione dell’Eucaristia in tutto l’anno liturgico. Nel libro si allude alle straordinarie qualità delle api che estraggono il polline dai fiori sfiorandoli senza sciuparli. Esse non partoriscono; diventano madri grazie alla fatica delle loro labbra, come il Cristo che procede dalla bocca del padre.

Come simbolo di dolcezza e buona predicazione, la dolcezza del miele divenne simbolo dell’eloquenza dei grandi predicatori come San Giovanni Crisostomo (che significa “bocca d’oro”). La leggenda riferita a Pindaro e a Platone (sulle cui labbra si sarebbero posate delle api mentre erano nella culla) viene ripresa anche per sant’Ambrogio di Milano; le api sfiorarono le sue labbra ed entrarono nella sua bocca.

Per il suo miele e il suo dardo, l’ape è considerata l’emblema del Cristo; da una parte ne evoca la dolcezza e la misericordia, dall’altra l’esercizio della giustizia, in quanto Cristo giudice.

Il comportamento delle api nei riguardi della regina e delle loro compagne è un modello di virtù cristiana anche per la loro esemplare castità già celebrata da Virgilio. Bernardo di Chiaravalle ha considerato le api come un simbolo di purezza e continenza e addirittura simbolo dello Spirito Santo.

Anche la forma del corpo dell’ape è significativa. Il corsaletto è l’immagine dell’uomo spirituale mentre la parte inferiore, quella che contiene il dardo, è considerata carnale. Il segmento esilissimo che collega la parte superiore all’inferiore è paragonato al giogo di una bilancia che mantiene perfetto l’equilibrio fra corpo e anima.

In Occidente, l’ape era considerata simbolo dell’anima, tanto da venir definita “uccello del Signore”. Il loro riposo invernale era paragonato invece alla morte, quindi vennero considerate anche un simbolo di resurrezione. A Ravenna, in un mosaico del VI sec. d.C., San Apollinare appare con la pianeta ricoperta di api: “le anime dei giusti”.

Contemporaneità

SIMBOLISMO DELL'ALVEARE E DELLE APICotta d’armi del Palazzo Barberini a Roma.

L’ape ha un ruolo di rilievo nell’arte e nell’araldica, essendo spesso raffigurata come simbolo di sovranità e di ordine. Numerose famiglie nobiliari, appartenenti a diverse epoche e paesi, hanno scelto di includere l’ape nei propri stemmi. Un esempio illustre è rappresentato dalla famiglia Bonaparte. L’ape assumeva un significato di nobiltà e potere all’interno del contesto araldico. Inoltre, l’alveare stesso veniva considerato un simbolo di una comunità ideale, rappresentando l’ordine e la cooperazione che caratterizzavano la società.

The Feminine Monarchie, or the History of Bees” è un trattato scientifico del 1609 del naturalista e apicoltore inglese Charles Butler. È considerato il primo lavoro sulla scienza dell’apicoltura in lingua inglese. Il testo portò alla conoscenza pubblica che una colonia di api è presieduta da un’ape regina.

Le api sono state viste come un modello per la società anche in tempi più recenti, la giornalista Bee Wilson afferma che l’immagine di una comunità di api mellifere “si riscontra dai tempi antichi a quelli moderni, in Aristotele e Platone; in Virgilio e Seneca; in Erasmo e Shakespeare; Tolstoj, così come dai teorici sociali Bernard Mandeville e Karl Marx.” Un animale socievole, laborioso e diligente, è un promemoria costante di cosa può essere una società ben organizzata e affiatata.

L’ape è protagonista di numerose leggende popolari. Nella cultura tedesca, ad esempio, c’è una leggenda secondo cui le giovani spose devono mettersi di fronte ad un alveare come prova di purezza. Nella moderna magia popolare i calabroni servono come amuleto per la salute e la ricchezza. Si diceva che le punture d’ape curassero il dolore dei reumatismi e dell’artrite (un aspetto che la scienza moderna sta studiando), e il miele è stato utilizzato nella magia popolare per curare praticamente ogni disturbo di cui l’umanità abbia mai sofferto. Le api sono state a lungo associate alle streghe e alla stregoneria: si diceva che una strega del Lincolnshire avesse un bombo come animale domestico (Ransome “The Sacred Bee in Ancient Times and Folklore”), un’altra strega scozzese avrebbe avvelenato un bambino agendo in forma di ape e in Nuova Scozia uno stregone maschio fu accusato di aver ucciso una mucca facendo atterrare su di essa un bombo bianco (Creighton H. “Bluenose Magic: Popular Beliefs and Superstitions in Nova Scotia”).

I presagi erano letti nel volo delle api, così come nel volo degli uccelli, per secoli. Quando le api sciamano, di solito è considerato un cattivo presagio. Se le api sciamavano su un albero morto o marcio, si diceva che ciò presagisse la morte di uno della famiglia che possedeva o viveva vicino all’albero. Quando le api diventano letargiche, ciò presagisce sfortuna e se sono impegnate a ronzare, allora presagiscono buona fortuna.

Se un’ape ronza su un bambino addormentato nella sua culla si dice che presagisca che il bambino vivrà una vita lunga, felice, sana e prospera e se l’ape toccasse le labbra del bambino sarebbe un grande poeta secondo il folklore greco. Se un’ape atterra sulla propria testa, il folklore suggerisce che i propri sforzi saranno coronati dal successo. C’è una strana credenza secondo cui le vergini possono passare attraverso uno sciame di api senza essere punte (Hole C. “English Folklore”); e se le api nidificavano nelle gronde di una casa si diceva che le figlie della casa non si sarebbero mai sposate.

Ci sono anche storie, specialmente dalla Germania, in cui le anime dei dormienti lasciano i loro corpi sotto forma di ape che vola dalla bocca e, se l’ape viene intrappolata o aggredita, l’anima non è in grado di tornare nel corpo. Le api offrivano anche protezione all’anima. Nella tradizione dei paesi slavi dell’Adriatico esistevano credenze simili testimoniate da Katja Hrobat Virloget e Petra Kavreči nel testo “Il paesaggio immateriale del Carso“: «Se l’anima, in forma di calabrone, bombo, e simili, se ne andava attraverso la bocca di un uomo dormiente, non poteva tornare indietro e l’uomo moriva (Ginzburg, 1966, 225). Come confronto si cita una registrazione di un racconto popolare dei dintorni di Capodistria:”Un giorno gli uomini presero la zappa e scesero giù verso Capodistria per cercare lavoro. Era già molto che camminavano sotto il sole quando giunsero in un certo posto in cima a un monte. Andarono da un ricco contadino, un Italiano, e gli chiesero se aveva lavoro per loro. Li mandò a zappare la vigna. La terra era dura come la pietra, il sole bruciava e subito divennero madidi di sudore. Erano affamati e assetati ma dovevano pazientare. Quando giunse una donna con un cesto sulla testa con la merenda per loro, si sedettero a terra e divorarono tutto come lupi. Andarono poi all’ombra di una quercia e si riposarono. Un uomo maturo, di nome Pierin, andò invece a riposarsi discosto da loro e si coricò sotto un arbusto. Là si addormentò. Gli altri uomini videro che dalla sua bocca uscì un calabrone. Di questo se ne avvide anche Lazar e disse agli altri che stessero attenti a quando il calabrone tornasse indietro. Effettivamente videro che il calabrone era ritornato e che si era calato nella bocca di Pierin. Dopo di che, costui si era svegliato. Gli uomini gli saltarono allora addosso, minacciando di ucciderlo se non avesse detto loro, che cosa era stato. Egli disse: »Oh, se voi sapeste dove sono stato! Ero a Pisino e ho ucciso il bambino non ancora nato a una certa donna«. E disse ancora: »Se voi mi aveste spostato anche solo di poco, sarei allora morto, perché quel calabrone, che sarebbe la mia anima, non avrebbe trovato la strada per il ritorno«. (Tomšič, 1989, 58 (n° 38 )) Una versione storica di questo racconto risale al periodo dell’insediamento dei Longobardi in Friuli. Ce l’ha trasmessa Paolo Diacono nella sua “Historia Langobardorum” (3.34) della fine dell’VIII sec. e in questo territorio evidentemente è sopravvissuta fino ai tempi più recenti.»

Le api sono anche collegate alle fate, in parte per la loro natura alata, ma anche grazie al poema italiano del XVI secolo “Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto, che presenta una fata buona con il nome molto appropriato di Melissa. Dall’Isola di Man arriva il racconto di un gruppo di fate che, mentre volavano, producevano un rumore simile a quello di un’ape ronzante. Le api, come le fate, sono spesso considerate le guardiane del mondo naturale, a causa del loro ruolo vitale nell’impollinazione di molte piante.

“The Bee Friend” di Hans Thoma, 1863/1864.

Telling the bees” è un’antica usanza popolare inglese in cui le api vengono trattate come membri della famiglia e tenute aggiornate su tutto ciò che accadeva. Molti di noi hanno familiarità con la tradizione di “dire alle api” quando muore qualcuno in famiglia, in particolare il custode principale dell’ape, ma tradizionalmente tutte le notizie di famiglia, comprese nascite, matrimoni, ecc., e persino notizie sui visitatori, venivano raccontate alle api per cortesia. C’è una clausola a questo proposito, dovevi stare attento a chi raccontava cosa alle api; ad esempio solo la sposa doveva dire alle api di un matrimonio imminente e nessun altro, non importa quanto fosse ben intenzionato. Si credeva che non dire alle api notizie importanti avrebbe portato alla loro fuga, alla loro morte o all’interruzione della produzione di miele. Sia in Gran Bretagna che in America, le api mellifere venivano persino invitate ai matrimoni (Horn T. “Bees in America: How the Honey Bee Shaped a Nation”) e ai funerali (Dundee Courier), e se veniva fatto, era usanza lasciare cibo e bevande dalla veglia, o un pezzo di torta nuziale, all’alveare.

Questa idea di raccontare alle api va molto più in profondità delle notizie di nascite, matrimoni e morti. Risale all’idea che le api siano messaggere del divino o di altri regni. In molte parti della Gran Bretagna le api sono note come “Le piccole serve di Dio” o “Le piccole messaggere di Dio” e questa idea delle api come messaggere risale alla mitologia greca. Nel folklore gallese, le api, come l’uomo, erano considerate le uniche creature ad essere venute dal Paradiso ed erano viste come particolarmente amate da Dio.

SIMBOLISMO DELL'ALVEARE E DELLE APILa forma esagonale delle celle degli alveari può suggerire un collegamento con la Geometria Sacra ma si tratta semplicemente della forma geometrica che ha il miglior rapporto area/perimetro, utile ad economizzare il materiale con cui vengono costruiti, la cera.

SIMBOLISMO DELL'ALVEARE E DELLE APIInteressante dal punto di vista geometrico e matematico è il rapporto che le api hanno con il Sole nel loro sistema di comunicazione. Con la loro danza fatta di vibrazioni, formano piccoli circuiti a forma di 8 sui pannelli verticali dell’alveare: la figura realizzata indica la posizione della fonte del cibo rispetto al sole, mentre l’intensità delle vibrazioni ne indica la vicinanza. Al suo rientro, un’ape esploratrice per comunicare alle altre che la fonte di nettare è vicina compie una danza circolare, mentre se invece la fonte è più lontana la danza segue la forma di un “otto”. Inoltre, se si muove dal cerchio verso l’alto, vuol dire che la nuova fonte è in direzione del sole; se al contrario taglia verso il basso, significa che bisogna andare nella direzione opposta. Infine, se l’ape danzatrice taglia il cerchio formando un angolo, le altre comprendono che devono volare a destra o a sinistra rispetto al sole, a seconda dell’angolo che questa compie rispetto ad una immaginaria linea verticale. (VIDEO)

Bugonia

Nella regione del Mediterraneo anticamente, la Bugonia o bougonia era un rituale basato sulla credenza che le api venissero generate spontaneamente dalla carcassa di una mucca.

Il termine è citato nel Quarto libro delle Georgiche (IV, 528-558) dove è raccontato un episodio in cui, dalla carcassa di un animale morto, nasce uno sciame di api. Il fenomeno vi fa da spunto per collegarsi all’epillio su Orfeo ed Euridice, narrando la loro connessione col pastore Aristeo (Georg. IV, 317-452), grazie alla tecnica alessandrina dell’áition, con la quale si voleva ricercare nella mitologia le radici di un’usanza.

Illustrazione da “The Works of Virgiltradotto da Dryden (1709), volume 1, folio 391.

Secondo il mito riportato nelle “Georgiche“, Euridice, moglie di Orfeo, sarebbe morta perché morsa da un serpente velenoso mentre fuggiva per sottrarsi al tentativo di violenza carnale di Aristeo, fatto che avrebbe determinato la moria delle sue api quale punizione divina. Cercando consiglio, prima da sua madre, Cirene, e poi da Proteo, Aristeo apprende dalle sue sorelle, le ninfe Auloniadi, che la morte delle api era una punizione per aver causato la morte di Euridice. Per fare ammenda, Aristeo dovette sacrificare 12 animali (o quattro tori e quattro mucche) agli dei e, in memoria di Euridice, lasciare le carcasse nel luogo del sacrificio e tornare tre giorni dopo. Seguì queste istruzioni, costruendo altari sacrificali davanti ad una fontana, come consigliato, sacrificò il bestiame sopra menzionato e lasciò le loro carcasse. Al suo ritorno, tre giorni dopo, Aristeo trovò in una delle carcasse nuovi sciami di api, che riportò al suo apiario. Le api non furono mai più afflitte da malattie.

SIMBOLISMO DELL'ALVEARE E DELLE APIForse la prima menzione alla bugonia è di Nicandro di Colofone. Il processo è descritto da Virgilio nel quarto libro delle Georgiche. Molti altri scrittori menzionano la pratica.[9][10][11][12][13][14][15][16][17][18]. Nel Cyranides ermetico è riportato che i vermi nascono dopo una settimana e le api dopo tre settimane. Archelao chiama le api “la progenie fittizia di un bue in decomposizione”. Si dice che Celso e Columella si siano opposti a questa pratica.

Una descrizione dettagliata del processo della bugonia può essere trovata nella Geoponica bizantina:

«Costruisci una casa, alta dieci cubiti, con tutti i lati di uguali dimensioni, con una porta e quattro finestre, una su ogni lato; mettici dentro un bue di trenta mesi, molto grasso e carnoso; che un certo numero di giovani lo uccida picchiandolo violentemente con dei bastoni, in modo da mutilare sia la carne che le ossa, ma facendo attenzione a non versare sangue; che tutti gli orifizi, bocca, occhi, naso ecc. siano tappati con lino pulito e fine, impregnato di pece; che una quantità di timo sia sparsa sotto l’animale sdraiato, e poi che finestre e porte siano chiuse e coperte con uno spesso strato di argilla, per impedire l’accesso di aria o vento. Dopo tre settimane, che la casa venga aperta e che luce e aria fresca vi entrino, tranne dal lato da cui soffia più forte il vento. Undici giorni dopo, troverai la casa piena di api, appese a grappoli, e del bue non resteranno altro che corna, ossa e peli

Citando “Le metamorfosi” di Ovidio (XV.361–68), Florentino dallaGeoponica” riporta il processo come un fatto provato e ovvio:

«Se sono necessarie ulteriori prove per rafforzare la fede in cose già provate, puoi osservare che le carcasse, in decomposizione per effetto del tempo e dell’umidità tiepida, si trasformano in piccoli animali. Va’, e seppellisci i buoi macellati — il fatto è noto per esperienza — le viscere marce producono api succhiatrici di fiori, che, come i loro genitori, vagano per i pascoli, intente al lavoro e fiduciose nel futuro. Un cavallo da guerra seppellito produce il calabrone

Vecchia stampa ebraica che illustra la Bugonia, nascita delle api dal cadavere di un leone.

Una storia simile alla bugonia è narrata nella Bibbia, (Giudici 14,14) in cui Sansone pone il seguente enigma: “Dal mangiatore è uscito del cibo, e dal forte è uscito il dolce” riferito allo sciame di api (che producono il miele, sostanza dolce) trovato all’interno del corpo di un leone morto:

Sansone scese con il padre e con la madre a Timna; quando furono giunti alle vigne di Timna, ecco un leone venirgli incontro ruggendo. Lo spirito del Signore lo investì e, senza niente in mano, squarciò il leone come si squarcia un capretto. Ma di ciò che aveva fatto non disse nulla al padre né alla madre. Scese dunque, parlò alla donna e questa gli piacque. Dopo qualche tempo tornò per prenderla e uscì dalla strada per vedere la carcassa del leone: ecco nel corpo del leone c’era uno sciame d’api e il miele. Egli prese di quel miele nel cavo delle mani e si mise a mangiarlo camminando; quand’ebbe raggiunto il padre e la madre, ne diede loro ed essi ne mangiarono; ma non disse loro che aveva preso il miele dal corpo del leone…

Sansone disse loro: «Voglio proporvi un indovinello; se voi me lo spiegate entro i sette giorni del banchetto e se l’indovinate, vi darò trenta tuniche e trenta mute di vesti; ma se non sarete capaci di spiegarmelo, darete trenta tuniche e trenta mute di vesti a me». Quelli gli risposero: «Proponi l’indovinello e noi lo ascolteremo». Egli disse loro: «Dal divoratore è uscito il cibo e dal forte è uscito il dolce»”.

Inoltre, l’antico filosofo greco Porfirio (233-304 d.C. circa) scrisse delle sacerdotesse di Demetra, note come Melissae (“api”), che erano iniziate della dea ctonia. La storia che circonda Melissae racconta di un’anziana sacerdotessa di Demetra, di nome Melissa, iniziata ai suoi misteri dalla dea stessa. Quando i vicini di Melissa cercarono di farle rivelare i segreti della sua iniziazione, lei rimase in silenzio, senza mai lasciare uscire una parola dalle sue labbra. Nella rabbia, le donne la fecero a pezzi, ma Demetra mandò una piaga su di loro, facendo nascere delle api dal corpo morto di Melissa.

È ovvio e comprovato che le api nascano nel loro alveare e non dai corpi in decomposizione degli animali, bisogna perciò cercare una spiegazione a questa bizzarra credenza nel simbolismo che è alla sua origine. Le api simboleggiavano nelle antiche culture del mediterraneo la purezza, l’anima dell’uomo, il collegamento con il mondo dei morti e la speranza in una reincarnazione, oltre a ciò erano anche messaggere degli dei, la cui parola era assimilata al suono del loro ronzare. Ed è nella “Parola” divina che forse si trova la spiegazione ad un simbolismo così oscuro.

Gli antichi Babilonesi (1600 a.C. circa) veneravano il dio Mithra che era rappresentato come un leone che teneva nelle sue fauci un’ape. Ape infatti, nella lingua locale, si pronunciava “Dabar” e “DABAR” era anche il termine per indicare la “Parola” (divina). Questo termine verrà utilizzato successivamente anche dagli antichi ebrei per invocare il Messia (Karl Otfried Müller Les Doriens” 1830; Ndr: l’attribuzione di questa fonte non è certa, la riporto per come era nel testo originale). Per gli ebrei l’ape è associata al linguaggio. In ebraico, la parola che indica l’ape è “Dbure” (Deborah), e ha origine dal termine “Dbr”, ossia discorso, e perciò, tra i primi credenti ebrei, le api simboleggiavano l’eloquenza e l’intelligenza a causa del loro ronzio.

In Mesopotamia il sumerico “ka-lal”, “bocca di miele”, è epiteto di divinità; e in un inno babilonese si dice di Ishtar: ha «labbra dolci come il miele, vita è la sua bocca». Per i greci Zeus è Zeus Meilichios, divinità suadente, dalla cui bocca colava un miele in grado di convincere gli uomini e di sedurre col potere della parola attraendo verso la verità. In un papiro neoplatonico il dio Mitra viene definito «colui che sostiene con il miele», «colui che distrugge con il miele», «colui che crea con il miele».

Il collegamento tra il simbolismo del leone con l’ape in bocca e il culto di Mitra si evince dall’osservazione dell’immagine sopra e di quella seguente. Nella prima il leone è sovrastato da una stella a sette punte, nella seconda sono presenti sette stelle contenute nei sette gruppi di parole in greco.

Ora, nei misteri di Mitra vi erano sette gradi di iniziazione corrispondenti a sette figure simboliche, una di queste era il “Leo” (Leone): «Associato a Giove, rappresenta il fuoco. Per questo ai leoni non erano permesso di toccare acqua durante il rituale, ed invece il miele era offerto all’iniziato per bagnarsi la lingua. I leoni portavano il cibo per il pasto rituale che era preparato da quelli dei gradi inferiori. Gli impegni dei leoni includevano il controllo della fiamma dell’altare sacro. Il banchetto rituale, costituito da pane e vino, rappresentava l’ultima cena di Mithra con i suoi compagni, prima della sua ascesa al cielo sul carro del Sole. I suoi Simboli: cane, cipresso, alloro, folgore, l’aquila, vespa. “Accipe thuricremos, pater accipe sancte leones, per quos thura damus, per quos consumimur ipsi.” “Accetta amichevolmente, santo Padre, i Leoni che bruciano l’incenso, attraverso essi noi spargiamo l’incenso, attraverso essi anche noi finiremo”

Lo scrittore romano Porfirio, nella sua opera “De antro nympharum”, ci racconta che nei riti romani di Mithra, il miele da un favo veniva versato sull’iniziato durante il rituale del “Leone” mentre veniva ammonito di evitare tutto ciò che è impuro nel mondo: «Perciò dunque, a coloro che vengono iniziati ai misteri del grado del Leone viene versato sulle mani miele in luogo dell’acqua per lavarsi, ordinando di mantenere le mani monde di ogni cosa dolorosa, dannosa, impura; e impongono così al miste, data la capacità purificatrice del fuoco, convenienti lavacri, avversando l’acqua come contraria al fuoco. Così pure purificano la lingua da ogni cosa falsa.»

«Nel Leone si è vista l’incarnazione più vitale dell’anima ignea, del fuoco, il massimo principio fisico. La purezza e la natura infuocata della nuova incarnazione cui giungeva il mystēs leo è sottolineata dall’uso del miele, a significare il perfetto accordo del Leone con il principio infuocato dell’ordine cosmico» (L.A. Campbell “Mithraic Iconography and Ideology” Leiden, 1968, p. 309).

Acquaforte “Leone mitraico con Ape tra le fauci” di Galestruzzi Giovanni Battista (1610±1619-1678 ca.), riproduzione delle due facce della gemma “mitraica” fiorentina.

Alcune interessanti considerazioni sul simbolismo del leone con l’ape e sul suo collegamento con il culto e i misteri mitraici sono contenute nel testo “Studi sul Mitraismo, Il Mitraismo e la Magia” di Attilio Mastrocinque, da cui riporto alcuni passaggi:

«Al Museo Archeologico di Firenze è conservata una gemma in calcedonio eliotropio raffigurante la scena di Mitra che sacrifica il toro, accompagnato da una complessa serie di personaggi e di simboli; al rovescio è inciso un leone che mangia un’ape, sormontato da sette stelle circondate da iscrizioni in greco (Inv. nr. 15110; il reperto faceva parte delle collezioni dei Medici).

…Esso merita invece un’attenzione particolare perché costituisce una delle poche testimonianze a nostra disposizione sulla simbologia dei gradi di iniziazione nel culto del dio persiano e inoltre permette di approfondire la questione del rapporto fra Mitraismo e magia. La lettura delle figure incise è facilitata dal confronto con alcune gemme analoghe, e in particolare con una gemma quasi identica, in corniola gialla, che si trova al Museo Civico di Udine. Probabilmente i due reperti sono databili al II secolo d.C. .

Sono note altre gemme raffiguranti un leone che tiene un’ape in bocca: A. GORLAEUS. “Dactyliotheca“. II, Amsterdam 1707, nr. 288; M. SCHOLTER. G. PLATZ-HORSTER, P. ZAZOFF, AGDS, IV, Wiesbaden 1975, nr. 1710-13 (al Kestner-Museum di Hannover, da Roma); CUMONT, MMM. II, p. 454, 16.b; P. BRUSCHETTI. in “L’Accademia etrusca“, Milano 1985, pp. 185-6 , nr. 185 (all’Accademia Etrusca di Cortona); J. J. WINCKELMANN, “Descriprion des pierres gravées du feu baron Stosch” Firenze 1760. p.202. nr. 1210 (collezione Stosch: diaspro verde raffigurante un leone con una corona sulla gola, i sette pianeti intorno, due cornucopie in alto e un sole al rovescio); cf. inoltre “Thesaurus gemmarum allliquarum asrriferarum“, I, tav. CLI, CLII, CLVII.

…La ricorrenza di parole magiche che si erano riscontrate anche nelle gemme e negli amuleti magico-mitriaci indica che sia gli esperti di magia che i Mitraisti facevano ricorso ad elementi comuni. Del resto, questo fenomeno era stato riscontrato con precisione a proposito del “papiro magico di Berlino” XIXa. Si potrebbe forse affermare che i collegamenti fra Mitra e Osiride, Serapide ed altre divinità ctonie della religiosità egiziana caratterizzano sia la magia che le pratiche mitriache più particolarmente riservate ai gradi elevati della gerarchia mitriaca, quelli che erano “sotto la tutela” di Saturno.

…Strettamente collegato con il brano del “papiro Mimaut” è l’oracolo di Serapide cui si fa riferimento nel papiro V (II, 1-53), ove si legge: «Oracolo di Serapide con un ragazzo, con una lampada, una patera ed un sostegno: “lo ti chiamo, Zeus, Helios, Mitra, Serapide, invitto, Meliouchos, Melikertes, Meligenetor”. Seguono serie vocaliche e voces magicae, fra le quali CAMAC ΦPHTI, commistione di due teonimi solari di origine semitica ed egiziana, e il ben noto BAKAΞIXYX . Poi si insegna come pronunciare le sette vocali, e alla fine si fornisce la formula per congedare il dio. Gli appellativi Meliouchos, Melikertes, Meligenetor, probabilmente riferentisi al miele, sono applicati a Mitra solo nei papiri magici, ma è possibile che essi trovino rispondenza (anche se non derivazione) nel ruolo del miele e dell’ape nel rituale mitriaco (Porfirio “De antro Nymph.” 15-16; cf. FAUTH “Helios Megistos” p.19)

…Per finire, sarebbe opportuno proporre un’ipotesi circa l’uso e il significato di questo genere di gemme. Il compito è arduo, a meno che non ci si limiti ad affermare che esse erano portate da iniziati al Mitraismo, probabilmente di un grado abbastanza alto. Potrebbe trattarsi di Leones, visto che al rovescio della gemma fiorentina c’è il leone. Del resto, esistono -e sono state citate- altre gemme raffiguranti questo animale con l’ape in bocca, e l’ape con ogni probabilità simboleggiava l’anima.

L’esistenza di una gemma magica raffigurante il serpente con testa radiata (Chnubis) e ape in bocca prova che la suprema divinità solare poteva svolgere lo stesso ruolo che nella gemma fiorentina è attribuito al leone, e pertanto è tutt’altro che certo che si trattasse di gemme commissionate da Leones.

Si potrebbero avanzare varie spiegazioni per il leone con l’ape in bocca, in chiave simbolica: a) il leone era il simbolo della costellazione del Leone, attraverso la quale le anime venivano al mondo; b) esso era il simbolo del sole, generatore delle anime; c) esso era il simbolo di Saturno; oppure d) esso era il simbolo del possessore stesso della gemma.

La prima spiegazione, proposta per la prima volta dal Delatte, si rifà ad un passo di Macrobio, dal quale veniamo a conoscere uno sviluppo della dottrina platonica della discesa delle anime dal cielo, secondo cui solo quando le anime raggiungevano la costellazione del Leone cominciavano la discesa verso la terra unendosi al corpo. Il leone della gemma fiorentina forse simboleggia l’aspetto leonino della divinità solare, aspetto che esprimeva tutte le sue potenzialità nella costellazione del Leone, quella dalla quale dipendeva la discesa delle anime sulla terra, e probabilmente il loro ritorno al cielo.

Una gemma della collezione Brummer raffigura al dritto un demone tricipite, al rovescio un gallo anguipede e, sotto, un leone, e intorno l’iscrizione [“Sono un leone, porto un leone, sono la casa (astrale) di Zeus”] ; sotto: ώήν Κοάν e caratteri magici. L’affermazione contenuta nell’epigrafe definisce compiutamente il nume dall’aspetto leonino. Nel Mitraismo il grado iniziatico del Leone era sotto la tutela di Iuppiter/Zeus e Manilio (II.433-52) ci informa che la costellazione del Leone dipendeva da Giove, e pertanto è da credere che l’espressione “sono la casa di Zeus” si riferisse alla costellazione del Leone. Probabilmente si trattava di un Giove solare, perché l’astrologia non poneva Giove, ma il Sole nella sede astrologica del Leone.

Come seconda possibilità, si potrebbe ipotizzare che il leone fosse il simbolo del sole, dal quale venivano generate le anime. La natura ignea del leone era consustanziale al dio solare e all’anima degli uomini spirituali.

…[R. BECK, “Planetary Gods and planetary Orders in the Mysteries of Mithras“, Leiden 1988, pp. 41-2 ; Io. , “ln the piace of the Lion: Mithras in the Tauroctony“, in “Studies in Mithraism“, pp. 30-31]. In quest’ultimo lavoro, il Beck (part. pp. 44-46) ha cercato di mostrare l’importanza della congiunzione tra il Sole e la costellazione del Leone nel Mitraismo; Mitra che uccide il toro rappresenterebbe il Sole nel Leone, e a tale proposito egli richiama uno scolio a Stazio (in “Theb.” 1.7 19-20) in cui si spiega che Mitra è il Sole e il Toro la Luna e che Mitra appare come il Sole dal volto leonino, con la tiara, in veste persiana, che trattiene con ambo le mani il toro.

…Su alcune gemme magiche, con iscrizione che si riferisce alle forme assunte dal dio solare durante il suo percorso, compare un cinghiale che tiene in bocca un insetto, oppure una testa di toro. A tale proposito il “Mitografo Vaticano” III (1.8, pp. 155-6 Bode) afferma che la faccia di Saturno aveva attributi di serpente, di leone e di cinghiale, che simboleggiavano la stagione fredda, quella calda e la volubilità degli elementi.

Come si è visto, sono note gemme magiche con l’ape in bocca al leone, al serpente leontocefalo o al cinghiale: precisamente le tre forme assunte da Saturno. Per questo è lecito chiedersi se il leone della gemma magico mitriaca di Firenze, il demone leonino Ialdabaoth-Saturno e la figura del cinghiale con insetto in bocca non fossero immagini del dio creatore Saturno che divora le anime (come nel mito egli divorava i figli) oppure che le genera (Saturno è il padre del padre degli dèi).

Si potrebbe prendere poi in considerazione l’ipotesi secondo cui il leone con l’ape rappresentasse la natura ignea dello spirito di chi possedeva la gemma. Nel “Corpus Hermeticum” è detto che le anime più giuste si possono incarnare nell’aquila, nel leone o nel delfino, oltre che in re o sacerdoti sapienti. Già Platone parlava della reincarnazione di Aiace come leone, Filostrato parla del caso del faraone Amasi, il cui spirito fu riconosciuto in un leone da Apollonio di Tiana, mentre il caso di due defunti di Oea, presso Leptis, il cui sarcofago reca iscrizioni dichiaranti che l’uno era un leo, l’altra una lea, dimostra che “diventare” “leoni” significava raggiungere la perfezione in terra. Nel Mitraismo si discuteva sulla natura ignea dei leoni, intendendo per leoni sia gli animali che gli iniziati al grado del Leone.

Celso, a proposito delle concezioni degli Ofiti di cui si è detto, riferiva che “alcuni uomini tornano ad assumere gli aspetti degli arconti, di modo che gli uni diventano leoni, altri tori, altri draghi o aquile o orsi o cani“.

Dai discorsi dell’imperatore Giuliano l’Apostata si ricava come Attis fosse concepito come un Leone che regna sui leoni, perché egli trasmetteva a questi ultimi una parte della sua sostanza calda e ignea. È pertanto possibile supporre che il leone fosse l’animale dotato di sostanza ignea divina, in una immagine vivente, o metafora del dio solare che era fonte di ogni germe di spiritualità, al quale l’uomo doveva diventare simile, trasformandosi egli stesso in leo. Del resto, sia nell’Ermetismo, sia negli scritti ispirati alla teurgia, sia nella Gnosi si insiste sulla natura ignea e luminosa della divinità, dalla quale deriva il germe divino presente nello spirito dell’uomo.

Va detto però che le tre possibili interpretazioni non sono fra loro necessariamente alternative, perché era possibile, ad esempio, che il leone della gemma rappresentasse sia la sede in cui le anime entravano nel mondo (la costellazione del Leone), sia i l dio che presiedeva alla generazione e alla morte (Saturno), sia l’immagine dell’iniziato che si identifica con il leone divino.»

Forse quest’ultimo passo del brano riportato sopra è il più corretto. La credenza della Bugonia è un chiaro esempio del processo di distorsione del pensiero, in cui un concetto (un simbolismo in questo caso particolare) viene così tante volte reinterpretato, confuso e sincretizzato da risultare talmente distante, se non all’opposto, dal significato originale.

Alveare nella Tradizione Ermetica

Nel simbolismo alchemico, l’alveare è legato come tanti altri simboli alla materia prima, il principio della trasmutazione, quella materia che con il processo di trasmutazione può essere trasformata nella preziosa Pietra Filosofale.

Sopra: l’alveare allegorico (a destra) è posto a fianco del forno alchemico (sinistra), all’interno del quale avviene la trasmutazione della materia nella «Pietra Filosofale». I «falsi alchimisti» (al centro), che fraintendono la natura divina di quest’opera e cercano solo l’oro volgare, sono paragonati agli inutili ronzii dell’alveare. Stampa estratta da un’opera alchemica pubblicata al culmine dell’illuminismo rosicruciano. Opera di Michael Maier, “Examen fucorum” (Francoforte 1617). Da notare sul forno una civetta, il simbolo della dea Minerva utilizzato in seguito dalla setta degli Illuminati di Baviera e dal Bohemian Groove.

Il «significato» di un simbolo è perennemente aperto all’interpretazione, ma in questo caso particolare esiste un forte precedente storico per assumere un testo allegorico più profondo. Questa metafora esatta dell’ape mellifera come alchimista e l’alveare come replica alchemica, è presentata sul frontespizio del “Examen fucorum” di Michael Maier (Nicholas Hoffman, Theodor de Bry, Francoforte 1617), facsimile in S. Klossowski de Rola, “The Golden Game”, pag. 65. L’ape e l’alveare sembrano essere entrati nel vocabolario simbolico dei secoli XVI e XVII attraverso un’influente opera riscoperta del Porfirio neoplatonico del III secolo, “De Antro Nympharum”. In questo breve saggio, Porfirio ha esaminato alcuni versi del tredicesimo Libro dell’Odissea di Omero e ha mostrato che dovevano essere interpretati come un’allegoria del passaggio dell’anima immortale attraverso la mortalità verso la liberazione. Le api e l’alveare sono tra gli oggetti incontrati in questa «grotta della generazione». Come osserva Kathleen Raine, nella sua introduzione alla traduzione dell’opera di Thomas Taylor, «l’interesse di Porfirio per i simboli e i miti è centrale, in quello che Henry Corbin ha chiamato il “mundus imaginalis”, il mondo immaginale in cui le immagini sensibili sono informate di significato e dove i mondi possono essere individuati sotto forme simboliche […]. Con la rinascita della cultura neoplatonica nella Firenze rinascimentale, “De Antro Nympharum” parlò immediatamente al genio fantasioso di quei pittori dotati, le cui opere comunicavano le più profonde realizzazioni filosofiche nelle più leggere vestaglie» (in “Porphyry, On the Cave of the Nymphs” Phanes Press, 1991, pag. 10-13.) È lo stesso intento di trasmettere una comprensione dei «mondi superiori» attraverso forme simboliche che successivamente animarono il genere seicentesco di emblemi alchemici «geroglifici»; ed è del tutto naturale che rendessero omaggio facendo eco alle immagini di “De Antro Nypharum”. Porfirio associò la Grotta delle Ninfe di Omero ai templi rupestri di un’antica religione misterica e dedicò una lunga discussione ai significati simbolici e allegorici delle api e dei favi che vi si trovano. La rete e l’alveare sono stati successivamente collegati insieme in emblemi che identificano il patrono reale dell’Illuminismo rosacrociano, Federico V, l’elettore palatino, e il re di Boemia (questo collegamento aiuta a identificare la loro origine congiunta in Porfirio, un fatto che non ho visto notato altrove). Il regno di Federico divenne il punto focale delle aspirazioni riformatrici e sotto il suo patrocinio a Oppenheim furono pubblicati molti dei più influenti libri emblematici «rosicruciani». Questi includevano lavori pubblicati dalla ditta de Bry e diversi scritti da Michael Maier (“Examen fucorum” è un esempio; nel frontespizio Maier si identifica «Conte Palatino, Cavaliere Libero dell’Impero, Dottore in Medicina»). La Rosa Croce, la ragnatela e l’alveare sono nuovamente collegati sul frontespizio della collaborazione di Robert Fludd e di Joachim Frizius, “Summum bonum, The True Magic, Cabla e Alchemy of the True Fraternity of the Rose Cross” (Francoforte 1629; vedi F. A. Yates “The Rosicrucian Enlightenment” pagg. 72, 102).

SIMBOLISMO DELL'ALVEARE E DELLE APICroce sormontata da una rosa che riporta la scritta in latino «Dat Rosa Mel Apibus», uno dei motti ermetici dei Rosacroce che significa “la rosa dà il miele alle api”. Questo simbolo esplicitamente rosacrociano fu usato per la prima volta nell’intestazione del “Summum Bonum” di Joachim Frizius, successivamente adottato per il “Clavis” di (Robert) Fludd.

È da notare che la rosa abbia 7 petali così come la ragnatela sulla vigna rappresentata sullo sfondo ha sette partizioni; simbolo dell’emanazione del Sette cosmico. La Rosa è sovrapposta ad una croce spinosa, manifesto della rosa-croce ermetica. Sulla parte superiore della rosa due api, sulla parte inferiore un ragno. Simbolismo delle due vie che l’adepto può percorrere, il ragno, la Via della mano sinistra, il servizio al Sé. Le api, la Via della mano destra, il servizio agli altri Sé. “La saggezza è come un fiore da cui l’ape ricava il suo miele e il ragno il veleno, ciascuno secondo la propria natura” (Massima di un adepto sconosciuto); (Tratto da “The Secret Teachings Of All Ages” di Manly Palmer Hall).

Successivamente, il simbolo dell’alveare entrò nella Massoneria come uno dei dieci emblemi (compreso l’«Occhio onniveggente») dati al Maestro massone al momento della sua iniziazione cerimoniale; in Massoneria esso era associato al motto «industria» (cfr. J. Richardson, Monitor of Free-Masonry di Richardson, Charles T. Powner, Chicago s.d, pag. 40).

Sopra: il simbolo gnostico-ermetico dell’alveare ripreso dalla Massoneria, come emblema della Loggia in cui gli affiliati, paragonati ad api laboriose, si formano ed escono a diffondere per il mondo il verbo massonico. Tuttavia, l’«industria» che questo alveare propone metaforicamente è stata fraintesa ai nostri giorni. Nel suo contesto primario, l’«industria» era un’occupazione segreta e laboriosa di trasmutazione alchemica: una trasformazione della materia oscura in un puro e vitale elisir dorato, un’opera alchemica eseguita all’interno dell’alambicco, l’«alveare» dell’anima.

MASSONERIA

SIMBOLISMO DELL'ALVEARE E DELLE APIÈ come se formassero un egregore con una volontà di bene unificata, che riflette la risonanza armonica dei regni celesti”.

Nel mondo della Massoneria, il simbolismo è un linguaggio che comunica messaggi e insegnamenti profondi. Tra i tanti simboli che hanno un significato rilevante, l’ape è un emblema unico e intrigante. L’ape massonica o l’alveare è un simbolo massonico di duro lavoro e diligenza. Le api massoniche rappresentano le virtù massoniche di industria, ordine e prudenza. Queste api sono spesso viste su anelli massonici e altri gioielli massonici come ciondoli massonici e gemelli.

L’alveare è un simbolo massonico molto antico che è ancora utilizzato in molti paesi, ma in Inghilterra e Galles è stato abbandonato dopo l’Unione del 1813. Tuttavia, può ancora essere visto in alcune logge pre-Unione più vecchie, ad esempio è esposto come simbolo sul “3rd Degree Tracing Board” della Royal Cumberland Lodge No.41 a Bath, ma a tutti gli effetti è stato perso come simbolo sotto la United Grand Lodge of England.

Il rituale della Royal Cumberland Lodge risale al diciottesimo secolo e include il seguente riferimento al simbolo dell’alveare:

L’alveare ci insegna che come siamo nati al mondo esseri razionali e intelligenti, così dovremmo anche essere laboriosi e non restare inerti o guardare con indifferenza apatica anche i più meschini dei nostri simili in uno stato di difficoltà se è in nostro potere aiutarli senza danno per noi stessi o per i nostri contatti; la pratica costante, – di questa virtù è ingiunta a tutti gli esseri creati, dal più alto serafino in cielo al più vile rettile che striscia nella polvere”.

Il simbolo è molto antico e rappresenta la loggia di lavoro. Di solito si vedono sette api volare intorno all’alveare, sette è il numero per creare una loggia perfetta. Inoltre le sette api che sono spesso raffigurate nelle illustrazioni massoniche rappresentano le sette arti e scienze liberali, che sono il fondamento della conoscenza e della saggezza massonica. L’ape era usata come simbolo nell’antico Egitto e il simbolo dell’alveare risale almeno all’antica Roma. L’alveare come simbolo è stato adottato da molte Società di mutuo soccorso, Sindacati e compagnie assicurative, l’alveare rappresenta l’industria dell’alveare e le api le lavoratrici.

Secondo il rituale americano Preston-Webb, l’alveare viene spiegato come un simbolo di industria e cooperazione, e come un avvertimento contro la pigrizia intellettuale, avvertendo che “chi si umilia in modo tale da non sforzarsi di aggiungere qualcosa al patrimonio comune di conoscenza e comprensione, può essere considerato un fuco nell’alveare della natura, un membro inutile della società e indegno della nostra protezione come massoni“.

Il primo riferimento massonico noto all’alveare si trova in un manoscritto intitolato “A Letter from the Grand Mistress of the Female Free-Masons to Mr Harding the Printer”, trovato nella “Halliday Collection”, Royal Irish Academy, Dublino. Si ritiene che questo documento sia stato creato tra il 1727 e il 1730 e, sebbene originariamente attribuito a Jonathan Swift, il vero autore rimane sconosciuto.

Un’ape è stata in tutte le epoche e nazioni il grande geroglifico della massoneria, perché eccelle su tutte le altre creature viventi nell’ingegno e nella comodità della sua dimora o favo; … anzi la Massoneria o la Costruzione sembrano essere della stessa Essenza o Natura dell’Ape, perché la sua Costruzione non nel Modo ordinario di tutte le altre Creature viventi, è la Causa Generativa che produce i Giovani…

Per questa Ragione i Re di Francia, sia Pagani che Cristiani, sempre Eminenti Massoni, portavano tre Api per le loro cotte d’Armi…

Quello che i Massoni Moderni chiamano Loggia era per le Ragioni di cui sopra nell’Antichità chiamato un ALVEARE di Massoni, e per le stesse Ragioni quando avviene un Dissenso in una Loggia, l’andare via e formare un’altra Loggia è fino ad oggi chiamato SCIAMATURA.”

L’alveare è un simbolo che è stato incluso nel terzo grado della Massoneria che si concentra sul dovere di una persona verso Dio, la famiglia e il paese. L’alveare è quindi un simbolo di industria, fertilità e produttività, nonché di resurrezione o immortalità. L’alveare serve anche come promemoria per i massoni che dovrebbero lavorare insieme in unità per raggiungere i loro obiettivi comuni. Soprattutto, la massoneria riguarda la moralità e la virtù, con un’attenzione alla carità. I massoni credono che essendo laboriosi e lavorando duramente per ciò che hanno, siano caritatevoli con se stessi e con gli altri. Alcuni potrebbero vedere nell’alveare un modello della fratellanza massonica. Ogni ape ha una relazione simbiotica con tutte le altre e, nel complesso, si sostengono a vicenda e, di conseguenza, sostengono l’alveare. L’alveare è anche associato alla saggezza perché le api sono in grado di ritrovare la strada per tornare all’alveare anche se si sono perse. Questa analogia può essere applicata ai Massoni che usano la loro conoscenza e comprensione del simbolismo massonico per ritrovare la strada di casa (cioè la loggia massonica).

I Massoni spesso si riferiscono a se stessi come “le Api”, il che è un altro cenno all’importanza di questo simbolo nella Massoneria. Ci sono cinque motivi per cui l’ape massonica è così iconica e importante per la fratellanza massonica:

– I massoni sostengono i principi di uguaglianza, libertà e giustizia per tutte le persone.

– Le api sono un esempio di laboriosità, che riflette un importante valore massonico.

– L’artigianato è parte integrante della Massoneria, i cui membri usano le proprie capacità per creare qualcosa di bello o migliorare qualcosa.

– La Massoneria promuove la creatività attraverso i suoi rituali e simboli.

– Le api crescono e calano, ma tornano sempre più forti.

Un breve saggio sull’alveare come simbolo della Massoneria di Soror Tzadkiel:

«Nel modo in cui tutti i membri di un alveare lavorano collettivamente per servire la colonia e la Regina, i Massoni si sforzano congiuntamente di servire tutta l’umanità e Dio. Ogni ape lavora in perfetta armonia con tutte le altre api nell’alveare in modo che il lavoro comune possa essere eseguito con efficienza e precisione. È come se formassero un egregore con una volontà di bene unificata, che riflette la risonanza armonica dei regni celesti.

Poiché ogni ape si sottomette allo scopo della sua vita, l’alveare è in grado di sopravvivere e prosperare. Poiché l’iniziato aspira a vivere una vita dedicata al benessere dell’umanità, gli archetipi dell’ape e dell’alveare servono come simboli appropriati per il lavoro della Massoneria.

L’aspirazione di ogni Massone è quella di trasmutare le proprie impurità, rappresentate dalla pietra grezza, in qualità illuminate, rappresentate dal cubo perfetto. Una volta che l’aspirante ha eliminato le protuberanze e le escrescenze, è in grado di esistere come un cubo perfetto e può quindi servire correttamente come parte integrante dell’architettura del Tempio. Le api hanno già raggiunto questa aspirazione. Ogni ape trascorre la propria vita lavorando come aspetto fondamentale della propria coscienza di alveare perfettamente funzionante.

Le api mellifere raccolgono nettare e polline dai dolci fiori. Quindi trasportano il nutrimento per nutrire i loro piccoli e servire l’alveare. Allo stesso modo, i Massoni raccolgono gli insegnamenti sacri del loro lignaggio per manifestare una consapevolezza interiore della connessione che tutti abbiamo con la sacra energia della forza vitale universale. Ciò a sua volta serve alla salute e alla felicità di tutti gli esseri senzienti, poiché aiuta la psiche collettiva dell’umanità ad avvicinarsi a Dio.

Anche il simbolo del miele è significativo. In tutta l’antichità, il miele è stato associato alla moralità e alla Sacra Scrittura. Nella tradizione ebraica, il miele è associato alla dolcezza della Torah. Anche gli insegnamenti di saggezza della Massoneria possono essere compresi attraverso questo simbolismo.

Quindi, l’alveare è uno splendido simbolo per comprendere le funzioni della Massoneria. È degno di nota che gli alveari siano stati raffigurati nelle opere d’arte massoniche negli ultimi duecento anni, almeno. Allo stesso modo in cui l’ape vive una vita di servizio per il bene superiore dell’alveare, così il massone sceglie di vivere una vita dedicata a beneficiare il benessere dell’umanità e di tutti gli esseri senzienti nel tempo e nello spazio.»

FONTI

L’ape nella Storia e nella Cultura: Un Simbolo Ricco di Significato (Link)

Il Simbolismo – L’ape – Inchiostronero (Link)

L’uomo e le api dall’arte alla ricostruzione storica (Pdf)

L’ape nell’arte antica (Link)

«Agreo e Nomio avrà nome e per altri Aristeo». Storie di api, oracoli e fondazioni (pdf)

L’apicoltura e l’importanza delle api nell’antico Egitto – Mediterraneo Antico (Link)

Bees in mythology Wikipedia (Link)

Platone e i culti misterici – Studio della funzione dei riferimenti misterici nell’opera platonica (Pdf)

Kore e le Ninfe nel Mediterraneo, tra api e miele – Dialoghi Mediterranei (Link)

The Bee in Folklore & Mythology (Link)

Masonic Bee: The Roots and Symbolism Behind It – Freemasons Community (Link)

What is the Symbolic Meaning of the Bee in Freemasonry (Link)

The Beehive | Symbols and Symbolism | Freemason Informatio (Link)

The Midnight Freemasons: The Symbolism of the Beehive (Link)

A Brief Essay on the Beehive as a Symbol of Freemasonry (Link)

La natura della Kabbalah (Link)

10 incredibili curiosità sulle Api che non conoscevi (Link)

Leonardo da Vinci Favoliere (Link)

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